Il mercato del lavoro è molto cambiato negli ultimi anni e grande è l’influenza delle tecnologie dell’informazione in questo settore. I responsabili delle risorse umane si trovano ad affrontare nuove sfide, tra queste in primo luogo quella di attrarre e poi trattenere i talenti, il capitale umano di elevato valore capace di fare la differenza. Valentina Piccioli di Docebo intervista  la prof.sa Maria D’Ambrosio dell’Università Suor Orsola Benincasa, esperta di politiche del lavoro attive e di nuovi media, per cercare di capire come affrontare queste sfide.

D: Maria, partiamo da una questione cara a tutti: come scegliere in un contesto di selezione del personale la risorsa più adatta ad un’azienda. Oggi tutti i giovani laureati sanno compilare un Curriculum e molti enti offrono comunque assistenza nella compilazione. Ma 100 laureati potrebbero sembrare tutti uguali se si guarda ai dati inseriti nel CV. Come aiutare il selezionatore allora?

R: Innanzitutto, e anche a partire dalla sola redazione o lettura  del curriculum, questo può essere inteso come traccia attraverso cui ricostruire una specifica ‘storia di vita’, quindi non come sequenza lineare di piani ma come intreccio da cui far emergere la persona con le sue stratificazioni e complessità, individuando delle traiettorie e delle potenzialità da leggere in chiave di costrutto identitario mobile e quindi anche in chiave professionale e lavorativa. In questo senso, più utile sarebbe se per il curriculum si utilizzasse un format più narrativo per ricostruire un itinerario e per rintracciarvi i profili dei candidati. Dare ‘profondità’ e corpo al curriculum può voler dire affidarsi anche ad altri indicatori che non siano i titoli e la carriera formativa.

D: Oltre allo screening di CV e ai colloqui di lavoro, quali sono secondo la sua esperienza gli strumenti a disposizioni delle aziende per rendere più efficiente la selezione?

R: Raccontarsi ed essere capaci di ascoltare il racconto degli altri costituiscono nuove metodologie e strategie, più attive, per la ricerca del lavoro da una parte e per la selezione del personale dall’altra. Introdurre il paradigma narrativo nell’ambito della selezione e della gestione delle risorse umane vuol dire iniziare ad affinare le capacità di analisi e di valutazione ed utilizzare  metodologie e strumenti ad hoc per una ricerca ‘esplorativa’ e più capace di eludere stereotipi e categorie precostituite che non aiutano la singolarità e la pluralità. Inoltre, la scelta che muove verso metodologie e strumenti ‘narrativi’ si situa all’interno di una specifica cultura del lavoro che guarda alla persona nella sua totalità, e soprattutto al lavoro come mondo di esperienza e quindi come spazio di crescita permanente per la persona, e quindi considera la risorsa umana attiva in senso lavorativo come impegnata a dare coerenza e dinamicità alla propria storia di vita. L’analisi di un breve testo narrativo (il lessico, la struttura sintattica, i riferimenti extratestuali, …) possono essere di supporto ad una osservazione/valutazione orientata alla selezione del personale perché la narrazione offre la possibilità di muoversi tra piani e punti differenti per giungere ad una visione più complessa della persona e della sua storia (già vissuta e potenziale).

D: Passiamo al colloquio di lavoro. Anche in questo caso sembrano esserci dei cliche che non aiutano a scoprire l’unicità della persona. Cosa possiamo consigliare a chi ci legge?

R: Come dicevo, e come già in fase di redazione del curriculum, anche nei colloqui di selezione i candidati rispondono e fanno emergere gli elementi che pensano possano rispondere alle aspettative dell’interlocutore. Questo falsa la valutazione e lascia inesplorate delle ‘zone’ che sono parte, spesso più profonda e più interessante, della persona e costituiscono la vera risorsa che la persona può poi condividere e valorizzare situandosi in un certo ambiente lavorativo. Utilizzare storie, metafore, problemi da risolvere, analisi di casi, lascia spazio al racconto, alla traccia soggettiva del racconto. Il racconto consente di lavorare sul piano simbolico e sull’immaginario che questo veicola. Fare del colloquio di selezione uno spazio narrativo vuol dire anche per chi seleziona dare voce alla storia aziendale, oltre che ascoltare quella del candidato, così da riuscire ad accedere in senso reciproco, l’uno al mondo dell’altro e verificare  la possibilità di interazione e di scambio.

D: Dunque, ci stai dicendo che lo storytelling è uno strumento utile in fase di selezione e non solo. Ce ne parli più nel dettaglio?

R: Lo storytelling è un ambiente cognitivo vero e proprio che può accogliere nello specifico le istanze del mondo della selezione e della gestione delle risorse umane, così come quelle della formazione e dello sviluppo del capitale umano. Raccontare e raccontarsi vuol dire offrire a chi ascolta il proprio sguardo su ciò che si racconta. Raccontare è assumere una posizione rispetto alle cose da narrare. Attraverso il racconto ciascuno, in veste di narratore, fa emergere qualcosa di sé e della propria visione delle cose raccontate. Il racconto attiene a una visione artigianale della conoscenza e della conoscenza del sé. È la forma più antica di comunicazione e di condivisione della conoscenza. Pertanto può essere una metodologia da introdurre in ambito organizzativo per intercettare e promuovere la capacità di ciascuno a mettersi nel discorso, a partecipare, a mobilitare le proprie risorse, e soprattutto una metodologia per aprire spazi di autonomia e responsabilitàin ambito lavorativo.

D: Passiamo ora ad un fase diversa della gestione delle risorse umane: la gestione di una community di professionisti. Che valore ha secondo la tua esperienza la partecipazione attiva del singolo lavoratore?

R: Secondo quanto detto fin qui, sto sostenendo l’importanza paradigmatica della ‘comunità di pratica’ (Wenger; Mezirow;..), quella comunità, cioè, in cui ciascuno si riconosce in una pratica professionale e lavorativa già legittimata e strutturata e rispetto alla quale è possibile aprire lo spazio per la riflessione sulla pratica stessa, così da rigenerarla continuamente e chiamare ciascuno della comunità a prendervi parte ‘con cognizione’, garantendo la necessaria attualizzazione delle pratiche professionali e l’apertura al cambiamento. Il paradigma della comunità di pratica può strutturare la gestione delle risorse umane e richiamare ad una specifica governance: partecipativa, attiva, sempre attualizzata, che genera innovazione e valorizza e promuove le intelligenze e le differenze. Il coinvolgimento del lavoratore rispetto all’organizzazione resta una questione centrale, oltre che un obiettivo strategico, per la crescita dell’organizzazione: una crescita fondata sulla crescita delle sue risorse umane. La comunità di pratica richiede a ciascuno di dare senso alla quotidiana attività lavorativa, facendo del contesto lavorativo uno spazio tutt’altro che routinario in cui ciascuno porta la propria domanda di senso e si fa partecipe/responsabile/consapevole/collaborativo perché vive la storia lavorativa come parte della propria storia di vita, affronta il quotidiano con una posizione ‘problematica’ e interrogativa, si fa ricercatore in azione, senza distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (secondo il learning by doing e del cooperative learningsu cui si fonda la comunità di pratica).

D: Dallo storytelling al problem solving dunque… Gli strumenti IT, come i social, le intranet, i gestionali aiutano a far crescere una comunità di professionisti?

R:  Importante considerare come opportuna e sostenibile l’estensione della comunità di pratica e delle interazioni tra i partecipanti attraverso spazi web condivisi e altri applicativi a supporto di una necessaria posizione riflessiva da assumere rispetto al proprio quotidiano lavorativo. Per una comunità di pratica, che si apre a spazi di riflessione, anche la discussione e il confronto in un ambiente (chiuso) supportato dal web, diventa una comunità di apprendimento le cui performance riguardano il piano professionale ma anche esistenziale e personale. Ciascuno può portare nella comunità anche risorse esterne e non formalizzate rispetto al contesto lavorativo e professionale. In tal modo, il cognitivo della comunità si estende ed integra differenti piani di conoscenza e di esperienza, valorizzando il capitale umano e trasferendone il valore in termini di capitale sociale.

D: Learning by doing, ovvero apprendere sul campo. Ecco questo ci sembra un elemento di valore per tutte le aziende. Cosa possiamo dire in proposito?

R:  Il learning by doing è una prospettiva con cui le aziende possono qualificare le attività del quotidiano lavorativo, sfuggendo all’idea di procedure standard e esecuzione senza cognizione. Su questo punto già Dewey, interpretando le istanze del governo americano di adattare il sistema educativo alla rivoluzione industriale e alla logica della fabbrica, tra la fine del XIX e i primi del XX secolo, ha creduto in una rivoluzione cognitiva necessaria per la cultura del lavoro e della formazione: l’azione è da pensare come parte integrante della cognizione, parte di sistemi di pensiero che si nutrono dell’agire e del senso attribuito di volta in volta all’azione. L’attivismo di Dewey che qualifica il fare rendendolo condizione per l’apprendimento è una prospettiva che stenta ad entrare e qualificare i nostri sistemi e le nostre organizzazioni lavorative.

D: Gli strumenti IT, come i social, le intranet, i gestionali, aiutano a far crescere una comunità di professionisti? Che contributo possono dare quindi le nuove tecnologie applicate al mondo HR nella creazione di un ambiente di lavoro più connesso e collaborativo?

R: Le governance delle aziende sono spesso basate sulla divisione netta tra politica aziendale e strutture esecutive. Per questo non ci si sente parte di una visione comune e il lavoro complessivo ne risente: le performance sono legate a degli standard prestabiliti. Monitorare e farsi supportare in maniera intelligente nella comunicazione e nella condivisione del lavoro può contribuire a far crescere il coinvolgimento di ciascuna parte e a rendere le esperienze ‘locali’ delle antenne sulla ‘realtà’ e sulle dinamiche sempre nuove che la attraversano. In questo modo si fa ricerca e sviluppo a partire dalla gestione del quotidiano, chiedendo all’intero sistema di includere ogni sua parte come attiva. In questo la cultura digitale e il web che incontrano la filosofia del learning by doing, credo siano una risorsa per le aziende, proprio in termini di gestione e di cambiamento/innovazione.

D: Dunque l’e-learning, il mobile-learning sono tecnologie dell’apprendimento che aiutano l’azienda a crescere. A cosa dovrebbe mirare un’azienda quando abbraccia queste tecnologie?

R: L’azienda può cogliere nell’uso dei media digitali e delle tecnologie basate sul web che supportano anche il mobile-learning la possibilità di estendere e rendere più efficaci le modalità di interazione tra colleghi e la capacità di fare di ciascuna comunità di pratica una comunità di apprendimento. In questo senso è possibile mobilitare conoscenze e competenze in un’ottica non sommatoria ma algoritmica. Vuol dire superare in senso definitivo un’idea della formazione come acquisizione di nozioni, tutta centrata sui ‘contenuti’, sulla capacità di memorizzazione, e sui saperi da trasferire dal docente-esperto all’allievo.

D: Dunque siamo partiti dalle responsabilità dello staff HR per approdare a quelle del singolo lavoratore. Siamo di fronte ad una nuova filosofia del lavoro?

R: Così credo che sia. Insieme con il sociologo Vincenzo Moretti parlo della filosofia (e del paradigma) del #lavorobenfatto.  La questione è che la rivoluzione tecnologica che riconduciamo all’elettricità e all’informatizzazione, ovvero la rivoluzione postindustriale, non è stata incorporata, se non in maniera meramente tecnologica e tecnocentrica, dal management politico istituzionale e aziendale-imprenditoriale che ha messo da parte la visione antropologica e antropocentrica del lavoro, dell’impresa, del sistema economico. Dunque ritengo ci sia molto da fare in termini di Umanesimo tecnologico e di una conseguente cultura organizzativa riferita in particolare agli ambienti formativi e a quelli lavorativi.

La prof.sa Maria D’Ambrosio sarà moderatore del prossimo webinar “Un ecosistema di soluzioni Cloud per la gestione dei talenti in azienda“. Il webinar, sponsorizzato da: Docebo, Cezanne HR ed In-recruiting con il supporto di Skymeeting, sarà l’occasione per approfondire questi temi e vedere da vicino alcune tra le migliori soluzioni in cloud per l’HR: