Abbiamo scelto di affrontare il tema del Turnover generazionale da un punto di vista nuovo: quello di chi proprio ora muove i primi passi all’interno dell’ambito HR e quindi può portare una visione fresca e  consapevole del quadro che si trova di fronte chi entra oggi nel mondo del lavoro.

Per questa ragione l’articolo che andrete a leggere è stato redatto da Luana Caprioli, anno 1991, laureata presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Foggia; durante il percorso universitario si appassiona alle tematiche del diritto del lavoro e del diritto amministrativo, perciò, dopo il conseguimento della laurea, decide di frequentare un Master di I° livello in Human resources management presso la School of Management LUM Jean Monnet. Attualmente sta svolgendo un tirocinio presso l’Agenzia per il lavoro Gi Group Spa. Il suo obbiettivo, grazie alle conoscenze specifiche conseguite nel settore HR, è acquisire step by step un ruolo di dirigenza nell’ambito Risorse Umane. Speriamo che questa vetrina possa aiutarla ad avvicinarsi al suo scopo!

Buona Lettura!

 

Negli ultimi dieci anni in ogni realtà aziendale, politica e culturale italiana, sempre più spesso si sente parlare della realizzazione di un necessario e naturale ricambio generazionale, il quale tuttavia stenta a decollare.

Le ragioni di tale ritardo sono da imputarsi soprattutto all’immobilismo nel quale vive il tessuto imprenditoriale italiano (in particolar modo quello del Sud). Certamente le molte aziende ultracentenarie presenti nel “Bel Paese” rappresentano un modello di successo: sono realtà sopravvissute a due guerre mondiali, a recessioni e boom economici, all’avvento dell’ICT ed alla recente crisi globale.

Tuttavia, rimanendo ancorate a vecchi modelli organizzativi ed agli stessi manager da anni, tali imprese stanno conservando e rafforzando le condizioni che ne hanno permesso la sopravvivenza, o al contrario, le stanno perdendo?[1] Le aziende italiane, sono pronte ad accogliere le nuove leve anche a livello direzionale?

Per una corretta analisi del fenomeno del generational turnover, anzitutto bisogna inquadrarne i protagonisti. Nello specifico stiamo parlando di tre generazioni differenti, quali:

  1. La generazione dei “Baby boomers”, ovvero i nati a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino al 1963, in un periodo di grandi speranze che aveva portato, appunto, ad un boom delle nascite. Tale generazione è composta dai ragazzi che diedero vita alla grande rivoluzione culturale degli anni Sessanta e che diventeranno i fondatori delle più importanti aziende italiane ed europee.
  2. La “Generazione X”, composta dai nati tra il 1963 e il 1980, storicamente inquadrati nel periodo di transizione tra il declino del colonialismo, la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. La Generazione X è conosciuta come una delle generazioni più intraprendenti e tecnologiche della storia americana ed europea ed a loro si deve in gran parte l’espansione di Internet; i sociologi l’hanno definita “X” proprio a causa della sua indeterminatezza e, in certi casi, alienazione dall’ambiente circostante. Per molti versi essa rappresenta la generazione più sfortunata, arrivata troppo tardi per partecipare ai travolgenti anni Sessanta, e troppo presto per essere al centro della rivoluzione digitale[2].
  3. Infine ci sono i “Millennials”, i nati tra i primi anni ‘80 e i primi anni ‘90 nel mondo occidentale, gli imprenditori del futuro. Questa generazione a volte viene anche indicata come Generazione “Peter Pan”, a causa della loro propensione a ritardare più a lungo, rispetto alle generazioni precedenti, alcuni dei riti di passaggio verso l’età adulta, nonché a causa di una loro tendenza a vivere con i genitori per un periodo più lungo.

Dunque, durante il fantomatico passaggio generazionale in azienda, quali sono le maggiori criticità incontrate da chi subentra (o dovrebbe subentrare) alla vecchia guardia?

La domanda è ostica, soprattutto tenendo in considerazione quanto sia vasto il numero di aziende a conduzione familiare presenti in Italia, nelle quali il fondatore (generalmente appartenente alla generazione dei Baby boomers), dopo lunghi anni trascorsi dedicandosi al pieno sviluppo della propria attività, si trova costretto a cedere il controllo ad uno o più successori, facenti parte delle altre due generazioni sopra descritte.

Proprio per questo, il passaggio di testimone viene solitamente strutturato cercando di ridurre al minimo le alterazioni di quegli equilibri talvolta sottovalutati ma essenziali che, nel corso del tempo, hanno consentito all’impresa di svilupparsi. Vista da questa prospettiva, la situazione dei successori si dimostra tutt’altro che semplice; infatti, oltre a doversi confrontare con le problematiche quotidiane di cui un’azienda si compone, essi sono anche obbligati ad affrontare un passaggio del testimone che impone loro l’immediata capacità di sostituirsi ad una leadership probabilmente vincente, garantendo risultati altrettanto positivi nonostante la minore esperienza maturata (a causa della giovane età) ed il possesso di competenze differenti (a causa della evoluzione sociale).

Oltre al fatto che le nuove tecnologie hanno profondamente modificato l’approccio ai mercati (si veda la recente diffusione del cosiddetto Smart working) e le regole della concorrenza, impedendo ai discendenti di potersi basare sugli stessi principi gestionali adottati dalla precedente generazione, altre criticità che i successori dei vertici aziendali devono affrontare sono: il rischio che la nuova generazione, nel timore di attuare scelte errate o rischiose, diventi semplicemente il clone della precedente, replicandone stili di leadership e modelli imprenditoriali ormai anacronistici; il fatto che spesso la nuova generazione (soprattutto quella dei Millennials) desideri avere la possibilità di attuare quei cambiamenti organizzativi necessari per mantenere l’azienda al passo coi tempi, ma Baby boomers e Generazione X ne ostacolino la realizzazione considerandoli “troppo moderni”; ed infine il pericolo che la nuova generazione esautori la precedente. Infatti, seppur il rinnovamento e l’innovazione risultino spesso essenziali per la sopravvivenza di un’impresa, a volte accade che il successore rivoluzioni completamente l’intero sistema organizzativo aziendale, trascurando quei presupposti su cui si costituiva e grazie ai quali proliferava il precedente modello gestionale[3].

Nonostante tutti questi ostacoli però, ogni anno più di un milione di Millennials entra nel mondo del lavoro moderno, il quale risulta completamente diverso rispetto a quello incontrato a tempo debito dai Baby boomers; con l’aumento della globalizzazione e della concorrenza (ben il 63% dei Millennials è in possesso di una laurea di primo livello), le regole per l’affermazione professionale sono cambiate radicalmente. Oggi non esistono più percorsi di carriera lineari: innumerevoli sono gli ostacoli presenti lungo la strada che porta ai vertici aziendali, si potrebbe anche finire là dove non ci si sarebbe mai aspettati, il dirigente non è più l’unico responsabile della carriera dei suoi sottoposti e non esistono più posti di lavoro sicuri.

Secondo Dan Schawber, fondatore dell’azienda di ricerca e consulenza ‘Millennail Branding’ ed autore del best seller “Me 2.0”, oggi sarebbero principalmente tre le regole che le nuove leve dovrebbero seguire per dar vita ad una carriera di successo nel nuovo mercato del lavoro:

1) capire che il titolo professionale non definisce il proprio essere, ma occorre crearsi una reputazione, assumendosi anche responsabilità che si discostano dal ruolo ricoperto; se non si va in cerca di incarichi aggiuntivi, non ci si forma il più possibile, si resterà bloccati dove si è, diventando una risorsa sostituibile. Non ci si può più permettere di fare il minimo indispensabile, perché ci sarà sempre qualcun altro pronto a fare di più.

2) Il famoso “posto fisso” è ormai un vecchio retaggio delle generazioni precedenti, orientate a lavorare tutta la vita in una sola azienda. I Millennials invece cambiano lavoro regolarmente, restando nella stessa azienda in media per due anni appena, molto meno dei Baby boomers, che invece in media ci rimanevano almeno per sette anni. Infatti, dopo due anni, se non si intravedono opportunità di evoluzione orizzontale o verticale nell’organigramma aziendale, oggi risulta ragionevole cercare nuove strade. Inoltre bisogna sempre considerare l’instabilità economica e le esigenze dei mercati, l’ipotesi che un’azienda possa essere acquisita, un reparto fuso con altri, oppure si possa esser licenziati con poco preavviso. È dunque fondamentale avere un piano “B”, essere sempre aperti a nuove opportunità e mantenere aggiornato il profilo LinkedIn con ruolo attuale, risultati ed interessi.

3) La reputazione diventa una delle risorse lavorative più importanti, poiché di lavoro in lavoro e di azienda in azienda, essa sarà l’unica costante. Ovviamente nel mondo d’oggi la reputazione viaggia anche sul digitale (si parla spesso della “web reputation”); ciò che si posta online è comunque una rappresentazione del proprio essere e risulta fondamentale gestire le sensazioni, raccogliere feedback e garantire che l’impressione che emerge di sé stessi sia corretta A volte, è proprio la percezione che gli altri hanno di una persona il fattore determinante per un aumento, una promozione o persino per un nuovo impiego.[4]

A conferma di quanto appena scritto, vi è anche il report “The Future of Workforce[5], realizzato da Ubs, colosso bancario svizzero e multinazionale. La ricerca delinea il panorama lavorativo che attende la generazione dei Millennials: non vi saranno più uffici, scrivanie o posti fissi ed aumenteranno sempre più i lavoratori freelance (dei quali si registra un’impennata del 45% già fra il 2004 e il 2013).

Altro dato di spicco in questo studio è la previsione della scomparsa di circa la metà delle professioni attuali: esattamente il 47% del totale, è infatti destinato ad essere cancellato nei prossimi decenni e sostituito grazie all’utilizzo delle “nuove tecnologie”.

In ultimo, il report sottolinea come l’elemento della flessibilità sia una condizione sempre più fondamentale per le aziende, alle quali si consiglia di puntare sulla diversità di genere, su un mescolamento di soluzioni contrattuali e sull’attenzione alla “job satisfaction” per attirare nuovi talenti.[6]

 

[1] “Le imprese ultracentenarie di successo in Italia – Strategie e governance di impresa nel lungo periodo”, di Bϋchi G. e Cugno M., Franco Angeli editore, 2015.
[2] http://www.lastampa.it/2015/01/21/societa/addio-baby-boomers-il-mondo-dei-millennials-nVt50xpbE4OduIGSTUYMVO/pagina.html
[3] https://www.danea.it/blog/passaggio-generazionale-azienda-difficolta/
[4] “Promote Yourself – The new rules for career success”, di Schawbel D., St. Martin’s Press editore, New York, 2013.
[5]http://firstonline-data.teleborsa.it/news/files/1439.pdf
[6] http://www.tgcom24.mediaset.it/cronaca/lavoro-il-futuro-dei-millennials-e-free-lance-addio-a-uffici-e-posti-fissi_3029791-201602a.shtml

 

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Martina Tattini